«C’è bisogno di creare all’interno dei giornali strutture in grado di governare il cambiamento tecnologico. Perché o lo governi, il cambiamento, o ne verrai travolto».
Doveva partire come una ricerca legata al mondo dell’informazione, e si è trovata nel cuore della tempesta perfetta (per l’informazione) determinata dalla pandemia.
Una possibilità incredibile colta al volo per l’analisi sul campo dei processi di informatizzazione con particolare rilievo della automazione, che era ed è l’obiettivo della ricerca patrocinata dell’Ordine Nazionale dei giornalisti guidata e diretta dal dipartimento di scienze sociali dell’Università Federico II di Napoli dalla professoressa Enrica Amaturo e presentata dal giornalista Michele Mezza che ha moderato il secondo incontro della nona edizione di Glocal cui partecipava anche il presidente dell’ordine dei giornalisti Carlo Verna e il giornalista ed esperto di nuovi media Marco Pratellesi.
La ricerca ha raccolto e analizzato documenti e report di almeno 30 testate e valutato in profondità grandi gruppi editoriali (NYT, WP, UPI, AP, Guardian, Le Monde, El Pais) per verificare come si stanno posizionando le corazzate informative in merito alla velocità dei processi di automazione, e a questo proposito Enrica Amaturo ha constatato «forti dinamiche di questi cambiamenti» che secondo Marco Pratellesi possono venir inquadrate in ambito nazionale e internazionale: «Ognuna di queste testate internazionali ha creato un dipartimento di ricerca e sviluppo sottratto ai tempi del “day by day“ e che ha il compito di studiare tutti gli strumenti a disposizione del giornalismo e che aiutano i giornalisti ad essere più performanti così da dedicare più tempo alle analisi e all’attività giornalistica propria».
E a casa nostra? La tecnologia non è il nostro forte e dall’analisi si scorge il panorama informativo italiano che «a fronte della riduzione dei costi predilige quasi esclusivamente il solo flusso delle notizie, con meno fondi legati alla ricerca in questo campo».
Per contro tutti i grandi gruppi editoriali utilizzano l’automazione che permette di rendere più efficace il lavoro dei giornalisti. L’intelligenza artificiale viene utilizzata soprattutto quando ci sono dati e ripetitività.
«Se guardiamo i testi che i giornali italiani fanno sull’epidemia, questi possono venir agevolmente aggiornati quotidianamente coi soli dati e con qualche altra dichiarazione di giornata»: lavoro da robot, verrebbe da pensare, ma non sarebbe un’ipotesi azzardata poiché dalla ricerca è emerso che il 64% delle testate europee fa ricorso a processi di sostituzione del lavoro giornalistico con dispositivi automatici.
Come può la professione rispondere a questi cambiamenti? Per Carlo Verna, presidente dell’Ordine dei giornalisti, «le strutture giornalistiche e redazionali, la deontologia e i contratti devono tenerne conto», ma certo «l’algoritmo non deve trasformarsi in capo redattore».
Sempre sul fronte della professione, la professoressa Amaturo ha verificato che anche sul campo occupazionale, «tutti i grandi gruppi cercano data analyst e pochi giornalisti tradizionali. E se anche se nella pratica gli editori parlano di ricerca di professionisti dell’informazione, alla fine nelle redazioni ci saranno in futuro diversi esperti di dati e meno giornalisti. Oltre al lavoro giornalistico l’automazione ha anche fare anche con diversi “Bot“ che diffondono questo lavoro».
Qui subentra la vera scommessa del futuro della professione, secondo Pratellesi: un giornalista deve sapere utilizzare questi strumenti che a differenza del cittadino comune deve padroneggiare, in questo l’Italia paga lo scotto di investimenti bassi da parte dei gruppi editoriali di casa nostra: «La storia del giornalismo è una storia di tecnologia: radio, telefono e televisione abbiamo imparato ad utilizzarle e la professione del giornalismo non può essere separata dallo sviluppo delle tecnologie».
Una delle risposte dell’Ordine dei giornalisti potrebbe essere quella di «inserire queste materie fra quelle studiate nelle scuole di giornalismo», ha affermato Verna, anche se spesso la risposta degli editori è quella di ridurre il personale giornalistico e grafico piuttosto che investire sulle tecnologie: «La professione è rimasta indietro», secondo Pratellesi, «e il management editoriale è ancora di formazione novecentesca. Ancora oggi nei master di giornalismo tutta questa parte (intelligenza artificiale dedicata al giornalismo ndr) viene ignorata». A questo proposito decorso la ricerca un indicatore di qualità di una struttura redazionale è quella di creare all’interno del corpo redazionale figure specifiche e che non vanno esternalizzate. Il valore sta nell’estrarre dai dati la conoscenza, e quindi governare la tecnologia e per quanto attiene il panorama giornalistico italiano, proprio per l’assenza di grandi investimenti su questo campo da parte dei grandi gruppi editoriali, non è scontato che queste competenze siano rintracciabili anche in testate locali.
Qual è il livello negoziale accettabile sul fronte redazionale rispetto a questi cambiamenti? O meglio: come si ripopola una redazione che si automatizza (domanda a cui è stata abbinata la foto di apertura)? La sfida è non farsi espropriare dai nuovi saperi, come citava una delle proposte presentate dalla ricerca: la strada passa dal governo della tecnologia, da formazione e preparazione.
Qui il video dell’incontro: