Raccontare il Covid tra cronaca locale, privacy e deontologia. Un panel che al Festival Glocal 2020 organizzato da VareseNews ha voluto raccontare l’ondata che ha colpito interi territori e di riflesso anche il lavoro dei giornali locali.
Un racconto molto interessante da parte di chi ha vissuto in prima persona le difficoltà di una situazione complicata, un vero e proprio tsunami che è stato ed è narrato con grandi sforzi da parte di diversi giornali locali di tutta la Lombardia.
Il panel è partito col racconto di Isaia Invernizzi, giornalista de ilPost.it che ha seguito per L’Eco di Bergamo la prima fase della pandemia. Esperto di data journalism, autore di inchieste di valore assoluto sul caso della bergamasca, la zona più colpita d’Italia nei primi mesi di contagio: «Sono stati mesi intensi, è cambiato tutto davvero – commenta Invernizzi -. I primi giorni dell’epidemia, il 23 febbraio primo caso ufficiale, abbiamo scoperto l’onda gigantesca che ci stava travolgendo. Ci sono stati confronti continui in redazione, abbiamo cercato conferme, ma abbiamo cercato di misurare i toni con una tensione molto alta. Nelle settimane successive i giornali locali hanno avuto un ruolo chiave per il rapporto stretto col territorio. Ad esempio coi nomi dei primi deceduti: tutti hanno avuto una grande attenzione, una premura particolare, un rispetto nei confronti della notizia e dei cittadini. Ci siamo accorti che stava accadendo qualcosa di strano: le pagine dei necrologi crescevano, io mi sono spaventato alla quinta pagina. Sono arrivate a quattordici per un bel po’ di giorni di fila, segno di una situazione drammatica. Non sono numeri, ma persone, mamme, papà, nonni, zii, amici, tante persone conosciute. Le cifre che ci riportavano le fonti ufficiali non corrispondevano a quello che stava succedendo. Abbiamo deciso di scavare, di farci dare i report dai Comuni per capire la reale portata della situazione. Molti morivano senza aver fatto il tampone, tantissimi avevano paura di finire in ospedale, ma stando a casa si aggravavano in pochi giorni e la situazione per molti non è stata più recuperabile. Sono morte 7700 persone contro le 1700, 6 mila morti in più, solo 3 mila ufficializzate Covid dal tampone nei mesi di marzo e aprile. Abbiamo raccontato prendendo spunto dalle storie delle persone, restituendo dignità a chi non è potuto essere salutato dai propri cari e nemmeno essere riconosciuti come vittime del coronavirus. È stato difficile, faticoso. Dovevamo raccontarlo. Abbiamo utilizzato moduli che i sindaci dovevano compilare: spesso non avevano tempo e abbiamo dovuto contattarli di continuo per avere dati aggiornati e puntuali. I dati sarebbe importanti averli aperti per dare la possibilità anche ai giornalisti. Con Intwig abbiamo seguito le analisi dei dati e fatto stime che poi si sono rivelate azzeccate. C’è una rete di dialogo informale con altri colleghi di altre testate lombarde, con VareseNews, Il Giornale di Brescia, La Provincia Pavese ad esempio c’è stato un contatto diretto molto importante. Abbiamo avuto l’occasione, nostro malgrado, per fare un passo in più sul piano dei dati: le redazioni pian piano hanno dovuto metterci la testa per interpretare i dati in maniera corretta. Su questo fronte i giornali locali hanno dato ottimi esempi».
È stata poi la volta di Lorenzo Rinaldi, direttore, Il Cittadino di Lodi, il territorio dove è emerso il primo caso registrato in Italia: «Io in carica dal 1 gennaio 2020. Ho ben impresso il 20 febbraio la sera mi ricordo che circolava dall’ospedale di Codogno era scattato il protocollo Covid, che poi è diventato il paziente 1. Per noi è scattata una situazione nuova, piena di dubbi: abbiamo lanciato la notizia parlando di protocollo Covid, ci siamo fidati della fonte e della collega Vercellone, molto brava. Ci siamo trovati al centro del mondo all’improvviso, sono orgoglioso del lavoro dei miei colleghi. Lodi non ha un’Ats per una scelta fatta qualche tempo fa, la ricerca dei dati è stata difficile e complessa. I numeri sono sottostimati, mi rivedo in quello che ha vissuto Invernizzi a Bergamo. I dati forniti illustravano una realtà diversa da quella concreta. L’accesso ai dati è un problema serio, è un tema di democrazia: le istituzioni hanno il dovere di comunicare i dati. I giornali sono tornati a scavare e non aspettare i comunicati. Sui network nazionali troppo spesso sono stati forniti dati imprecisi, in maniera sensazionalistica. I giornali locali come il nostro hanno fatto un lavoro molto rigoroso, che spesso si è scontrato con la comunicazione mainstream».
Anche Marco Bencivenga, direttore de La Provincia di Cremona, ha toccato con mano la potenza devastante della pandemia in un territorio colpito in maniera importante: «Io sono bresciano, sono stati tanti anni a Brescia Oggi, quindi ho avuto lo sguardo su due territori tra i più colpiti del territorio. Il lavoro delle redazioni locali è stato importante. A Cremona è stato come una piena del Po, la pandemia però non se ne è più andata. Il 21 febbraio il primo segnale, il sindaco di Cremona ha chiuso le scuole subito e ha annullato il mercato settimanale. Il virus era a due passi da noi, poi c’è stata la prima vittima e a inizio marzo ben 17 morti in un solo giorno in una provincia di 300 mila abitanti. Siamo arrivati fino a 49 morti in un giorno. Abbiamo rivoluzionato il modo di fare il giornale, ci siamo divisi a turni, abbiamo fatto un primo piano continuo sul coronavirus. Siamo cresciuti col numero di pagine, avevamo materiale in abbondanza, con le necrologie che hanno preso via via sempre più spazio. Accanto ai dati, ai numeri, abbiamo raccontato moltissime storie, esempi di generosità, testimonianze: la foto dell’infermiera riversa sulla scrivania è solo un esempio. Abbiamo raccontato anche gli aspetti positivi, all’arrivo degli americani e dei cubani con le loro tende da campo abbiamo dedicato pagine e pagine. Abbiamo riscoperto il ruolo sociale del giornale, abbiamo rilanciato raccolte fondi che hanno portato 4 milioni di euro per gli ospedali, cercato di aiutare le scuole e i ragazzi con l’idea “Fate i compiti insieme a noi”, hanno partecipato in tantissimi. Il giornale è stato fatto in smart working, abbiamo scoperto le video riunione, la pandemia ci ha lasciato più capacità di utilizzo delle tecnologie. Il tema dei dati è stata la sfida più difficile. Li abbiamo chiesti ripetutamente, ci si è scontrati col margine discrezionale con i dirigenti delle varie Ats, la differenze tra una e l’altra è stata enorme. Lo scambio dei report c’è stato, ma il sistema di diffondere i dati ha avuto parecchie lacune. Vero che le istituzioni avevano altro a cui pensare, ma sulla comunicazione ci sono state parecchie lacune. Noi siamo stati attenti ad ogni titolo, ad ogni parola, dando le notizie con responsabilità: un merito da rivendicare anche in contrapposizione con tutto quello che è passato sul web e sui social».
Anche VareseNews è stato preso ad esempio, con Tomaso Bassani che ha raccontato come il giornale online di Varese, organizzatore di Festival Glocal, ha affrontato la pandemia: «La notte del 21 febbraio la ricordo benissimo, quando siamo piombati in una fase nuova. I casi si sommavano, si intuiva qualcosa di enorme, non tutto ancora: sicuramente si è notata subito una fame di informazioni enorme, le statistiche ce lo hanno detto subito, le ricerche su cosa stesse succedendo. È stata una fase importante per chi fa un giornale, per dare risposte, per dare informazioni. È stato un modo nuovo di lavorare: la redazione che è un luogo di lavoro vivo, in presenza, fatto di rapporti che si stringono, si è svuotata. Le occasioni di confronto si sono diradate, aumentando le difficoltà. Siamo riusciti a mettere in campo strumenti nuovi, una newsletter, una diretta con il direttore e i responsabili delle varie aree per fare un punto della situazione puntuale. Abbiamo avviato una raccolta di racconti di chi ha vissuto il lockdown, video con i commenti dei bambini, un’insieme di memorie di chi è mancato, il racconto dei famigliari, spesso struggente, ma richiesto e desiderato da chi ha subito perdite. Dopo l’estate però è cambiato qualcosa, c’è rabbia, violenza, i commenti negativi si moltiplicano: noi abbiamo fatto analisi e siamo stati travolti da commenti che ci accusavano, ci insultavano, ci attaccavano. C’è un clima brutto, complicato da vari fattori. Noi abbiamo cercato di raccontare tutto con responsabilità e attenzione, analizzando e proponendo i dati ai nostri lettori. Il problema dei dati c’è, c’è stato, ed è centrale. È stata tralasciata la parte della comunicazione da parte delle istituzioni, cosa che ha alimentato teorie del complotto o altre follie che sul web e sui social proliferano. I dati che vengono comunicati sono carenti, alcune leggerezze di trasmissioni o giornali mainstream hanno creato e creano disinformazione alimentata da chi vuole cavalcare l’onda delle fake news. Se avessimo dati completi, aperti, liberi sarebbe più facile mettere a tacere tutto ciò».
A chiudere il quadro, Alessandro Galimberti, presidente Ordine giornalisti Lombardia: «Questo periodo è stata la riscossa di un’intera categoria, del giornalismo locale, della cronaca. Il Ministero dell’Interno ha riconosciuto l’importanza del ruolo dei giornalisti che svolgono un ruolo fondamentale. In Lombardia ai giornalisti è permesso di circolare liberamente per poter svolgere il proprio lavoro, riconoscimento della centralità del ruolo del giornalista. Far circolare informazione corretta e precisa è fondamentale, essenziale. Il giornalismo locale ha svolto un ruolo chiave nel raccontare una situazione complicata, unica. Il riconoscimento del lavoro c’è stato, ci sono stati colleghi che hanno contratto il virus per raccontare quello che stava succedendo. Sono stati i cronisti locali che hanno raccontato quello che stava succedendo, dando un quadro della situazione reale, non raccontata dalle fonti ufficiali e spesso nemmeno dalla comunicazione nazionale. Uno dei tempi più volte sollevato è quello di accesso ai dati, molti hanno reperito i dati in maniera empirica, andando oltre il rapporto di dipendenza dalla fonte, che spesso fa venir meno il senso critico. Quello che è stato fatto dall’Eco di Bergamo è stato esemplare, hanno cercato la verità, che è il senso di quello che deve fare un giornalista. Oggi siamo nella fase 2, mi piace ricordare Letizia Mosca di Radio Popolare che si è scontrata con il Comune di Milano e con l’impossibilità di reperire dati ufficiale, ora Letizia non c’è più, ma siamo allo stesso punto. C’è la legge sul reperimento delle fonti, il cosiddetto Foia, che è ancora in gran parte disatteso: è un tema da sottolineare».