E’ stata un’occasione come ancora troppo raramente se ne trovano quella offerta dal panel di sabato mattina di Glocal, dal titolo: “Parole o-stili di vita. I media, le persone Lgbtqia+ e il racconto di questa realtà nel rispetto della deontologia giornalistica”.
Un argomento che è stato sempre preda delle etichette e in generale delle “parole che giudicano” una realtà che troppo spesso non si vuole accettare: ma che questa volta è stato affrontato dal lato della persona, e ne ha ricostruito il senso al di là degli aggettivi.
Tutto questo è stato possibile grazie soprattutto ai protagonisti dell’incontro, in diretta dalle 11 alle 13 di sabato 14 ma ancora disponibile sui canali Youtube e Facebook di Varesenews: Franco Grilini, Fondatore di ArciGay, Gegia Celotti, delegata per le pari opportunità dell’ordine dei Giornalisti della Lombardia, Barbara Mapelli scrittrice e docente di pedagogia di genere all’università Bicocca e Monica J. Romano presidente dell’associazione per la cultura e l’etica transgenere, e consulente aziendale che organizza corsi specifici sull’argomento.
Coordinati da Paolo Pozzi, portavoce del Presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia, i relatori hanno mostrato come, in questo argomento più che mai, le parole sono importanti: «Perchè definiscono e plasmano l’identità» come ha spiegato Monica Romano.
«Uno dei termini che mi più infastidiva una volta era la parola “invertito” – ha sottolineato Franco Grillini, che è stato tra i fondatori di Arcigay nel 1985 – Era una parola molto usata fino agli anni ’80, utilizzata anche dai cosiddetti progressisti, che era espressione di una cultura non pronta a comprendere e accettare quello che noi eravamo. Ricordo in particolare che fu oggetto di una incredibile sfuriata con Enzo Biagi». [lefoto id=1187201]Franco Grillini
Fondamentali, per cambiare il frasario che accompagna le persone LGBT, sono state le sempre più importanti manifestazioni d’orgoglio: «Parlo del Pride – precisa Grillini – Manifestazione che una volta non si chiamava cosi. Era piu culturale che politica e voleva solo ricordare la ribellione del 28 giugno 1969 alle repressioni omosessuali. Solo dopo è diventato il Pride, che si è diffuso enormemente anche in Italia: da noi ci sono state 41 manifestazioni nel 2019, con circa un milione di persone che hanno popolato le strade, 300mila solo a Milano. I giornali parlarono di “manifestazione mastodontica”».
Fondamentale però è stato anche un cambio delle definizioni: «Mi considero una donna transgenere e non transessuale – spiega Monica Romano – il termine transessuale è un aggettivo obsoleto che ci è stato appiccicato addosso dalla comunità scientifica».
Ma anche questo cambio di definizione non è bastato a tirare “fuori dall’angolo” certe minoranze: «Per troppo tempo un semplice aggettivo è stato utilizzato per noi come un sostantivo – ha sottolineato ancora Romano – Io non sono “una transgender”, quello è solo un aggettivo che mi definisce parzialmente. Io sono una “donna transgenere”. Senza contare che, all’epoca del mio percorso di transizione, o come preferisco più correttamente chiamarlo “percorso di affermazione di genere”, la parola transessuale era sinonimo di prostituta: la persona trans era identificata con un mestiere». [lefoto id=1187200]Monica Romano
Per costringere “gli altri” a riflettere, oltre alle manifestazioni di orgoglio si è lavorato quindi sulle parole: «Abbiamo cominciato a definire cisgender le persone che stanno bene nel sesso che gli è stato loro assegnato: ci siamo presi la cioè la libertà di definire ciò che è altro da noi. Diverse persone però si sono sentite infastidite, mi dicevano “io non mi sento cisgender, mi sento normale” – spiega ancora Monica Romano – Un percorso simile alla parola “eterosessuale” che inizialmente veniva percepita con fastidio, come se non fosse necessaria, e ora è normale. Alla fine, noi chiediamo di essere inseriti nel linguaggio e chiediamo alle norme di rivedersi e includere: chiediamo cioè al sistema di mettersi in discussione. Una posizione che genera forti confronti».
Di certo, una grande responsabilità è a carico dei giornalisti, cioè di chi scrive di argomenti di cui spesso conosce troppo poco e per i quali non ha sviluppato una sufficiente sensibilità: «L’idea del libro che abbiamo scritto con l’ordine è nata a Mantova, all’interno di un corso di formazione che Arcigay ci aveva propostosui motivi degli stereotipi di genere. Dopo questo, durante il lockdown, mi sono detta: perchè non parliamo di questo argomento di cui noi giornalisti sappiamo cosi poco e incontriamo cosi spesso? – spiega Gegia Celotti, delegata per le pari opportunità dell’ordine dei Giornalisti della Lombardia, che ha coordinato la realizzazione del secondo libro edito dall’ordine, dedicato proprio a quest’argomento – Quello che ne abbiamo tratto è che dobbiamo stare attenti alle parole e non copiare i verbali della questura, quando parliamo di persone che non hanno la possibilità di far valere correttamente i propri diritti. Un titolo come: “Si prostituiva da quando aveva 13 anni” è un titolo che grida vendetta: una ragazzina di quell’età non cerca volontariamente sesso, non sa nemmeno di cosa si stia parlando e cosa sta facendo. Per questo dobbiamo utilizzare parole, in tutti questi casi, che esprimono il rispetto per le persone di cui si parla».
Per chi volesse approfondire il volume è scaricabile, in versione pdf, sul sito dell’ordine dei giornalisti della Lombardia.